L’accezione più generale del termine si riduce a denotare un rapporto giuridico di appartenenza di un bene a un soggetto (p. reale) e, parimenti, il potere di gestione su di esso che ne deriva al soggetto (p. potestativa); in realtà, alle spalle di questa definizione piuttosto generica, vi è una lunga tradizione storica nel corso della quale il termine è venuto a essere modificato in più direzioni e a essere inteso con accezioni a volte decisamente divergenti. A partire da una iniziale opposizione tra proprium (personale), publicum (pubblico), alienum (altrui) e commune (indicante un ambito di condivisione e corresponsabilità), che segna come concetto fondamentale dell’idea di proprietà l’atto di esclusione e separazione che lo rende possibile, il termine è venuto evolvendosi all’interno del pensiero politico, il quale si è misurato soprattutto con il problema dell’origine e della giustificazione della p.; in molti filosofi è possibile riscontrare un radicamento naturale e antropologico che lega l’uomo all’idea di proprietà: è così per Platone, il quale ritiene che l’impulso al possesso sia dettato dalla natura stessa, come per Aristotele, per il quale si deve possedere perché si è uomini. A tale argomentazione, inoltre, perviene Spinoza che lega proprietà, passioni e natura umana contro la negazione utopica di Moro e quella millenaristica degli anabattisti. Per quanto riguarda invece il discorso sulle fondamenta della p., sostanziale è la contrapposizione che vede schierarsi da una parte il tomismo, per cui fonte della p. è l’ordine naturale (e il dominio sarebbe così comunicato all’uomo secundum rationem) e il pauperismo pratico del francescanesimo, basato sul volontarismo teorico. A partire dall’età moderna nasce l’urgenza di una riflessione che sappia ricollocare nel contesto dello Stato moderno (ved. Stato) il rapporto fra p. e autorità (ved. Potere); troviamo così chi, come Hobbes (e con lui Robespierre, Mirabeau e in seguito Bentham e Kelsen) pone il “mio” e il “tuo” come conseguenza dell’azione statale che la istituisce con la legge civile e chi, all’opposto, situa la p. già nello stato di natura e individua l’azione dello Stato
come finalizzata al mantenimento di tale diritto preesistente, come Locke, per il quale è per natura che il corpo (ved.) e il lavoro (ved.) appartengono all’essere umano (assunto condiviso da Adam Smith e rifiutato da Hegel) e quando questo trasforma un oggetto mediante il proprio lavoro v’infonde quel valore aggiunto che giustifica l’appropriazione, a prescindere da qualsivoglia convenzione civile. Su tale argomentazione viene a innestarsi la riflessione marxiana, per cui l’intimità con l’oggetto alla base del possesso rischia di tramutarsi nel proprio opposto, l’alienazione (ved.), nel momento in cui il lavoratore cessa di produrre beni per se stesso e immette il proprio lavoro nel modo di produzione capitalistico.
R. Esposito, C. Galli (a cura di), Enciclopedia del pensiero politico, Laterza, Roma-Bari
2000
Aristotele, Etica nicomachea
K. Marx, Il Capitale, 1867
Verlan, http://verlan.noblogs.org/, 31.5.2010
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